giovedì 28 aprile 2011

EQUITALIA IPOTECA LEGALE E FONDO PATRIMONIALE:


IL QUESITO:
- Fondo patrimoniale stipulato nel 2008,
- Separazione (consensuale/giudiziale) con figli minori, il giudice assegna la casa ai figli.
- Equitalia iscrive ipoteca sull’immobile facente parte del fondo patrimoniale,
- I debiti con Equitalia sono stati fatti prima della costituzione del fondo patrimoniale e l'immobile è stato acquistato nel 2008 con mutuo bancario.


PARERE:

L'art. 167 c.c. stabilisce che ciascuno o ambedue i coniugi, per atto pubblico, o un terzo, anche per testamento, possono costituire un fondo patrimoniale, destinando determinati beni, immobili, o mobili iscritti nei pubblici registri, o titoli di credito - vincolati attraverso la nominatività con annotazione del vincolo o in altro modo idoneo - a far fronte ai bisogni della famiglia.

Dalla costituzione del fondo patrimoniale deriva un vincolo di destinazione a far fronte ai bisogni della famiglia.
Questa destinazione dei beni del fondo viene assicurata attraverso l’art 160 c.c. il quale pone il divieto alla espropriabilità da parte dei creditori per debiti che il creditore conosceva essere stati contratti per bisogni estranei alla famigli.

Quanto ai crediti in favore dell’agente della riscossione (Equitalia), la Corte di Cassazione (Sezione V, sentenza 7/7/2009, n. 15862), ha disposto che Equitalia può agire esecutivamente sui beni del contribuente soggetti alla costituzione di fondo patrimoniale ai sensi dell’articolo 170 del codice civile, solo quando sia accertato che il credito erariale sia riconducibile alle necessità della famiglia.


E' invece irrilevante secondo la giurisprudenza qualsiasi indagine riguardo alla anteriorità del credito rispetto alla costituzione del fondo, in quanto l'art. 170 c.c. non limita il divieto di esecuzione forzata ai soli crediti (estranei ai bisogni della famiglia) sorti successivamente alla costituzione del fondo, ma estende la sua efficacia anche ai crediti sorti anteriormente, salva la possibilità per il creditore, ricorrendone i presupposti, di agire in revocatoria ordinaria (Cass. 3251/96, 4933/05).

Per quanto sopra esposto al fine di verificare la legittimità dell’iscrizione ipotecaria da parte dell’ente competente su beni costituiti in fondo patrimoniale per debito erariale è necessario verificare che vi sia una oggettiva destinazione dei debiti assunti alle esigenze familiari e, quindi, il criterio identificativo va ricercato non nella natura dell’obbligazione, ma nella relazione esistente fra il fatto generatore di esse e i bisogni della famiglia.

Possono considerarsi obbligazioni tributarie contratte per le necessità della famiglia l'I.C.I. o la TARSU, di contrario possono considerarsi estranee ai suoi bisogni l'IVA o le imposte su redditi di impresa o lavoro autonomo.

La consapevolezza del creditore della estraneità del debito alle esigenze familiari deve costituire oggetto di prova da parte di colui che si oppone all’espropriazione forzata. 

Se si tratta di debiti anteriori alla costituzione del fondo, si da atto che il creditore potrebbe esperire l’azione revocatoria fallimentare (entro due anni dalla costituzione del fondo) oppure l’azione revocatoria ordinaria (entro cinque anni, ricorrendone i presupposti), sostenendo che il fondo è stato costituito fraudolentemente per sottrarre i beni all’esecuzione forzata. Si richiama a tal fine la più recente Sentenza n. 38925 del 7 ottobre 2009, Sez. III penale, dove è affermato il principio per il quale la stipulazione di atti, ivi compresa la costituzione di un fondo patrimoniale privo di giustificazione, nella prossimità temporale della notificazione di avvisi di accertamento o di atti impositivi deve ritenersi chiaramente sospetta.
Il fondo, quindi, non può essere utilizzato per sottrarsi al pagamento di debiti già contratti. Un simile tentativo, infatti, potrebbe avere rilevanza penale, soprattutto se si tratta di debiti fiscali o nei confronti dello Stato.


Pertanto concludendo in presenza di fondo patrimoniale “legittimo”, ovvero non artificiosamente posto in essere per sottrarre beni al fisco si dovrà verificare se il debito fiscale è sorto per la soddisfazione dei beni della famiglia e solo allora il fondo sarà aggredibile.

Nel caso contrario, ovvero del fondo artatamente costituito per sottrarre patrimonio alle pretese erariali, ci si confronterà con tutte le problematiche di cui al Dlgs 74/00  in tema di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte.

La circostanza che vi siano figli minori non sembra a parer mio rilevante.
Ciò che rileva infatti è la natura del debito erariale come sottolineato meglio in precedenza.


Quanto alla circostanza relativa alla separazione dei coniugi si da atto come la separazione ex art 150 c.c. non sia causa di cessazione del fondo patrimoniale. Pertanto fino a che non sia passata in giudicato la sentenza di divorzio il fondo patrimoniale è da intendersi ancora esistente e illegittima ogni iscrizione ipotecaria in forza di debito estraneo ai bisogni della famiglia.


domenica 24 aprile 2011

ILLEGITTIMA LA TASSA DI CONCESSIONE GOVERNATIVA PER CELLULARI:


NORMATIVA:
La tassa di concessione governativa è stata introdotta dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641 “Disciplina delle tasse sulle concessioni governative”.

Questa assurda tassa era infatti originariamente diretta alle società telefoniche, che dovevano pagarla per l'utilizzo delle frequenze. Il Governo successivamente stabilì che dovesse essere pagata dai titolari di un contratto di abbonamento, in quanto il cellulare era un "bene di lusso".

Con il D.M. 28 dicembre 1995 è stata estesa anche ai contratti di telefonia mobile in abbonamento: 5,16 euro mensili per i privati e 12,91 euro mensili per i clienti business, anche se il costo era deducibile all’80% nella dichiarazione dei redditi.

Nel 2003 con l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 259/2003 “Codice delle comunicazioni elettroniche” la tassa in commento è stata abolita, ma solo sulla carta visto che le compagnie in tutti questi anni hanno continuato ad applicarla.

L’ILLEGITTIMITà DELLA TASSA:
La Commissione Tributaria del Veneto con la Sentenza n. 04/16/11 ha dichiarato la sostanziale illegittimità della tassa di concessione sui servizi di telefonia mobile, non trovando più applicazione la previsione di cui all’articolo 21 della Tariffa allegata al dpr n. 641/1972.
Viene ribadita l’abrogazione della normativa che regolamentava la tassa, per effetto dell’entrata in vigore del Codice delle telecomunicazioni elettroniche (D.Lgs. n. 259/2003) recante disposizioni in materia di liberalizzazione dei servizi di comunicazione.

Secondo il dispositivo emanato, infatti, il D.Lgs n. 259/2003 pur non cancellando esplicitamente l'articolo 21 della tariffa allegata al D.P.R. n. 641/1972, che include tra gli atti soggetti alla tassa governativa le licenze per l'impiego per il servizio radiomobile pubblico terrestre di comunicazione, abroga implicitamente il contributo attraverso la privatizzazione del servizio. La privatizzazione del servizio radiomobile pubblico terrestre di comunicazione ha, infatti, segnato il passaggio dalla concessione della licenza da parte della pubblica amministrazione al contratto che presuppone una posizione di parità fra i contraenti.
Data tale nuova circostanza, secondo i giudici, viene eliminato il presupposto del tributo che poggiava su un rapporto concessionario di tipo pubblicistico.

Così per effetto di questa sentenza oggi ciascun abbonato può inviare alla propria compagnia telefonica una diffida a mezzo raccomandata A/R perché non applichi più tale tassa e chiedere all’Agenzia delle Entrate il rimborso per quanto indebitamente versato negli ultimi 3 anni, quindi fino ad un massimo di 185,76 euro in caso di utenza privata e di 464,76 in caso di utenza business.

L'articolo 13 del dpr n. 641/1972 stabilisce che il contribuente può chiedere la restituzione delle tasse di concessione governativa «erroneamente pagate entro il termine di decadenza di tre anni a decorrere dal giorno del pagamento o, in caso di rifiuto dell'atto sottoposto a tassa, dalla data della comunicazione del rifiuto stesso».
Considerando il termine triennale:
• per i contratti di utenza privata la tassa governativa è pari ad euro 5,16 euro al mese moltiplicato per 36 mesi (per un massimo di 185.76 euro di rimborso),
• per i contratti intestati invece a titolari di partita iva, l’imposta è pari ad euro 12.91 al mese per lo stesso periodo triennale (per un massimo di 464.76 euro di rimborso)

Il rimborso, può essere richiesto da chiunque abbia sottoscritto negli ultimi anni un abbonamento per i servizi offerti dagli operatori di telefonia, può arrivare sino a 476 euro per aziende ed enti locali, e a 186 euro per i privati.

Modalità di rimborso della tassa concessione governativa:

Occorre inoltrare idonea istanza di rimborso della tassa concessione governativa indebitamente versata, considerando che, in caso di esplicito rifiuto o di silenzio rifiuto, decorsi 90 giorni dalla presentazione della stessa, è possibile ricorrere alla commissione tributaria provinciale competente.

La domanda va inviata alla propria compagnia telefonica esclusivamente presso la sede legale a mezzo raccomandata A/R, allegando copia delle fatture e delle ricevute di pagamento.
Per interrompere il termine prescrizionale occorre inviare la stessa istanza anche presso l’Agenzia delle Entrate di competenza. Il documento, che dev’essere inviato come raccomandata con ricevuta di ritorno in copia anche alla stessa ADOC.


E’ necessario allegare copia delle fatture e delle ricevute di pagamento.


LA RISPOSTA DEL GOVERNO:

Le associazioni consumatori, in particolare l’Adoc e l’Aduc, si sono fatte promotrici di una campagna per la restituzione della tassa e soprattutto hanno ripetutamente chiesto al Governo di pronunciarsi per mettere la parola fine alla questione. Questa risposta è arrivata qualche giorno fa su un’interrogazione dell’onorevole Fluvi secondo cui “il nuovo codice delle comunicazioni elettroniche del 2003 ha apportato al settore rilevanti innovazioni nell'ambito di un processo di privatizzazione che ha avuto come principale conseguenza il passaggio dalla concessione al contratto, cioè ad uno strumento di diritto privato il quale presuppone una posizione di parità tra i contraenti". "Il codice delle comunicazioni elettroniche - continua l'interrogazione - sembrerebbe, pertanto, abrogare implicitamente tutta la normativa basata sul presupposto di un rapporto concessionario di tipo pubblicistico".
A questo il Governo ha replicato che, “secondo l'Agenzia delle Entrate, il decreto legislativo che ha introdotto il nuovo codice delle comunicazioni non ha operato alcuna abrogazione del regolamento del 1990 che, pertanto, deve ritenersi ancora in vigore”. L'Agenzia ritiene, pertanto, che la tassa sulle concessioni governative sia dovuta nelle ipotesi in cui venga rilasciato all'utente il documento attestante la sua condizione di abbonato. Da questo si nota che non sono state prese in considerazione le sentenze della Commissione Tributaria del Veneto che a gennaio 2011 ha stabilito l’illegittimità della tassa di concessione governativa per il servizio pubblico, nè tantomeno l’ultima della Commissione Tributaria dell’Umbria che ha ribadito la questione.
Il Governo indubbiamente teme dover rimborsare ai contribuenti gli importi relativi alle tasse di concessione governativa versate a partire dall'entrata in vigore del decreto legislativo del 2003  e pertanto prende tempo. Nel frattempo però le richieste di rimborso continuano ad arrivare alle compagnie telefoniche e all’Agenzia delle Entrate. Una situazione, questa, che però ha bisogno di essere chiarita al più presto per non entrare in quel vortice in cui il più debole paga sempre.


CONCLUSIONI:
La vicenda è ancora avvolta da dubbi. Riguardo, pertanto, alla possibilità di un effettivo rimborso della tassa governativa sui cellulari, resta ancora alta l’incertezza. In tal senso è opportuno attendere ancora qualche momento, prima di inviare la lettera di diffida alla compagnia telefonica.
Se avete notizie che possono essere utili non esitate a segnalarle, al fine di arrivare al più presto ad un punto fermo.

venerdì 15 aprile 2011

I DOPPI NOMI LA REGOLA DELLA VIRGOLA è STATA ABOLITA:



L’art. 6 del codice civile recita che ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito, nel nome si comprendono il prenome ed il cognome. Dalla lettura di tale norma emerge, che il diritto al nome è espressione inalienabile dell’identità personale dell’individuo.

Il nuovo ordinamento dello stato civile DPR 396/2000 ha inteso regolamentare analiticamente ed in modo innovativo alcune fattispecie che sotto la vigenza del r.d. 9 luglio 1939, n. 1238, avevano dato luogo a discordanti orientamenti e soluzioni di tipo pratico.

IL NOME PRIMA DEL DPR 396/2000:
Per quanto riguarda il nome, le vecchie regole prevedevano che fosse possibile dare più di un nome al bambino ma che, se i nomi erano separati da virgole, era possibile legalmente usare solo il primo.

Ad ESEMPIO:
-       se una persona era registrata come Tizio, Alberto negli atti poteva scrivere solo Tizio;
-       se una persona era registrata come Tizio Alberto (senza virgola) negli atti doveva per forza usare entrambi i nomi.

Tutto quello che è accaduto prima continua ad essere retto dalle norme precedenti, pertanto tutti coloro che sono nati prima del DPR 396/2000 ed hanno due prenomi con la virgola continueranno ad usare negli atti un unico nome.

IL NOME DOPO IL DPR 396/2000:  
L’art. 35 o.s.c. statuisce che “il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso e può essere composto da uno o da più elementi onomastici, anche separati, non superiori a tre” ed aggiunge che in quest'ultimo caso, tutti gli elementi del prenome dovranno essere riportati negli estratti e nei certificati rilasciati dall'ufficiale dello stato civile e dall'ufficiale di anagrafe.

A tale ultimo proposito, la presenza di virgole, trattini ed altro, è oggi del tutto ininfluente al fine della formazione dell’atto di nascita, tant’è che ove essa fosse stata inserita o lo sia nei nuovi atti formati dopo l’entrata in vigore del nuovo Regolamento, è del tutto improduttiva di qualunque effetto imposto.

La nuova regola in pratica ha abolito le virgole.

Quindi, dal 2000 in poi si ha un solo nome, che può essere composto anche da due o tre elementi, ma che in ogni caso va usato per intero.

ESEMPIO:
-       se una persona é registrata come Tizio Alberto o come Tizio, Alberto dovrà comunque firmare con entrambi i nomi.


SI VEDANO LE RECENTI MODIFICHE AL DPR 396/2000 DEL GOVERNO MONTI
AVENTI EFFICACIA DECORSI 60 GIORNI DALLA PUBBLICAZIONE DEL DECRETO NELLA GAZZETTA UFFICIALE.

PER MAGGIORI APPROFONDIMENTI SI VEDA IL POST: NUOVE NORME PER IL CAMBIO NOME E COGNOME.






venerdì 8 aprile 2011

FEDERALISMO FISCALE: CAMBIA LA TASSAZIONE DEI REDDITI DA AFFITTO.




E’ stata introdotta a partire dal 7 aprile 2011 la "cedolare secca sugli affitti". Si tratta di un’imposta che sostituisce quelle attualmente dovute sulle locazioni (articolo 3 del dlgs 23/2011). E’ un regime facoltativo e si applica in alternativa a quello ordinario.
La cedolare secca, in pratica, sostituisce:
- l’Irpef e le relative addizionali;
- l’imposta di registro;
- l’imposta di bollo;
E ancora:
- l’imposta di registro sulle risoluzioni e proroghe del contratto di locazione;
- l’imposta di bollo, se dovuta, sulle risoluzioni e proroghe del contratto;


L’imposta cedolare secca è un’imposta con un’aliquota predefinita e che prescinde dal totale dei redditi del contribuente e non prevede eventuali esenzioni.
Si tratta di un nuovo sistema di prelievo fiscale sul canone d’affitto: non più tasse in base al reddito del proprietario ma una tassa proporzionale al canone di locazione fissato.

I proprietari di immobili dati in locazione di scegliere la tassa piatta (21% per i canoni liberi e 19% per quelli concordati) o la tassazione ordinaria che cresce insieme alle attuali aliquote Irpef.

L’Agenzia delle entrate ha emanato un regolamento sulle modalità di esercizio dell’opzione per l’applicazione del regime della cedolare secca, modalità di versamento dell’imposta e altre disposizioni di attuazione dell’articolo 3 del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23.


Non tutti i contratti di locazione potranno beneficiare dell'imposta sostitutiva. Vi rientreranno i soli affitti di immobili ad uso abitativo e delle relative pertinenze, non effettuati nell'esercizio di impresa o di professione.


Si dispone altresì che durante il periodo di applicazione della nuova imposta sia precluso qualsiasi aumento del canone di affitto, anche se pattuito in contratto, incluso l'aggiornamento Istat.  E’ inoltre previsto che l'opzione per la cedolare sia inefficace se non viene comunicata anche al locatario, con lettera raccomandata.

Sanzioni per gli affitti in nero:

Nel caso in cui il reddito derivante dalla locazione di immobili ad uso abitativo non venga dichiarato, oppure venga indicato in misura inferiore rispetto a quella effettivo, si applicano le seguenti sanzioni:
• dal 240% al 480% dell’imposta dovuta, in caso di omessa indicazione;
• dal 200% al 400% dell’imposta dovuta, in caso di indicazione in misura  inferiore rispetto a quella effettiva.
Invece, ai contratti di locazione di immobili ad uso abitativo che non  sono stati registrati e entro il termine stabilito dalla legge, si applica la  seguente disciplina:
• la durata della locazione è pari a 4 anni a decorrere dalla data di  registrazione;
• dalla data della registrazione il canone annuo ammonta al triplo della rendita catastale adeguato, a partire dal 2° anno, con l’aggiornamento  ISTAT.

 Se il contratto prevede un canone inferiore si applica comunque il canone stabilito dalle parti.

Queste disposizioni si applicano anche nel caso in cui:
• il contratto registrato indichi un canone inferiore rispetto a quello percepito;
• la registrazione riguardi un contratto di comodato fittizio;
a meno che la registrazione venga effettuata entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore del d.lgs. sul federalismo.



CLASS ACTION CONTRO LE PUBBLICHE AMMINISTRAZIONI




Le class action contro le pubbliche amministrazioni hanno lo scopo di garantire il cittadino/utente da qualsiasi violazione dei parametri di qualità del servizio pubblico, a prescindere dalla natura pubblica o privata del soggetto che lo eroga.

L’azione non può essere intentata per ottenere il risarcimento danni.
A tal fine restano fermi i rimedi ordinari.

L'azione collettiva può essere esperita dai "titolari di interessi giuridicamente rilevanti ed omogenei per una pluralità di utenti e consumatori" per tre motivi:

1) violazione di termini o dalla mancata emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento;

2) violazione degli obblighi contenuti nelle carte di servizi;

3) violazione di standard qualitativi ed economici.

L'azione postula la lesione diretta, concreta ed attuale dei propri interessi.

E’ stata stabilita altresì la necessaria previa determinazione dei parametri specifici della condotta lesiva.
Per le violazioni sub 2 e sub 3 ai sensi dell’art 7 del dlgs in commento il legislatore si è riservato la definizione del livello minimo di qualità dei servizi tramite un apposito regolamento.

Pertanto allo stato attuale, in assenza di tale regolamento, le relative azioni non possono essere esperite, essendo sottratta alla valutazione del giudice la determinazione di tale limite minimo, il cui apprezzamento costituisce condizione necessaria ai fini dell'accertamento della responsabilità.



Sentenza TAR Lazio 21/01/2011, n. 552


Con la Sentenza in commento il Tar del Lazio ha accolto il ricorso proposto dal Codacons, condannando i Ministeri dell’Istruzione e dell’Economia ad emanare – nel termine di quattro mesi – il piano generale di edilizia scolastica.
Il caso riguardava l'omissione da parte del Ministero dell'istruzione e il Mineconomia del piano di riqualificazione dell'edilizia scolastica: un atto necessario per consentire di garantire il rispetto della normativa sulla sicurezza ai fini del numero massimo di alunni per classe.
A tal fine, il Tar ha condannato i Ministeri a provvedere all'emanazione del piano entro 120 giorni dalla data di comunicazione o notificazione della sentenza.
La questione riguardava comportamenti omissivi della Pubblica amministrazione consistenti nella violazione dell'obbligo di ''emanazione di atti amministrativi generali obbligatori e non aventi contenuto normativo da emanarsi obbligatoriamente entro e non oltre un termine fissato da una legge o da un regolamento'' di cui al punto 1) sopra indicato.

In quest'ultimo caso, infatti, i giudici hanno argomentato che: "Quivi tutto è compiutamente predeterminato: la posizione giuridica tutelata è correlata all'emanazione di un atto le cui caratteristiche sono declinate direttamente dal legislatore, è regolamentata l'azione in relazione a tutti i profili rilevanti, è disciplinato il conseguente processo.".
E quindi il Collegio ha concluso affermando che non vi è: "alcun valido motivo per escludere l'immediata operatività delle previsioni di legge aventi ad oggetto l'omissione di atti generali, risultando irragionevole ogni diverso approdo ermeneutico.".