La Cassazione ha chiarito che in sede civile e precisamente in un giudizio di accertamento della paternità sono utilizzabili i campioni biologici consegnati dalle Aziende Ospedaliere al Ctu incaricato, senza che sussista alcuna violazione della privacy, stante la prevalenza dell'interesse giudiziario. Infondata pertanto la contestazione sull'acquisizione dei vetrini con i campioni biologici presso le Aziende ospedaliere, che secondo il ricorrente, una volta cessato il trattamento "avrebbero dovuto essere distrutti, e non potevano essere ceduti dalle strutture sanitarie." Le controversie aventi ad oggetto i diritti dei privati non richiedono infatti le stesse garanzie richieste per il processo penale. In sede civile inoltre il giudice non incontra il limite delle prove tipiche, potendo utilizzare anche prove atipiche, la cui rilevanza dipende da una valutazione del magistrato. Esclusa quindi la possibilità di applicare la regola della inutilizzabilità della prova prevista per il processo penale in quello civile, la Cassazione chiarisce che sul diritto alla privacy del soggetto prevale "il trattamento dei dati personali qualora - effettuato per ragioni di giustizia - per tale intendendosi i trattamenti di dati personali direttamente correlati alla trattazione giudiziaria di affari e controversie (art. 47 Dlgs n. 196/2003 nel testo anteriore alla abrogazione disposta con il dlgs n. 101/2018.)" Anche il regolamento europeo n. 679/2016 ammette una deroga al limite della privacy e al trattamento dei dati personali se è necessario "accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali." Pertanto, fermo restando il principio secondo cui rimane precluso l'accesso a quelle prove la cui acquisizione concreti una diretta lesione di interessi costituzionalmente tutelati riferibili alla parte contro cui la prova viene utilizzata, la conservazione dei dati personali, compreso il vetrino che contiene il campione biologico con le indicazioni idonee a identificare il soggetto a cui appartiene, è giustificata nel momento in cui emergono finalità istituzionali dell'ente pubblico, come nel caso di specie, ossia l'impiego giudiziario dei dati biologici. Disposizioni che trovano conferma anche nel regolamento europeo 679/2016. Dalla complessa normativa sulla Privacy emerge che anche la "conservazione" del dato personale (tale dovendo configurarsi anche il vetrino contenente il campione biologico in quanto risulti corredato da indicazioni atte alla identificazione del soggetto cui appartiene) rientra nelle operazioni di trattamento e può, quindi, trovare giustificazione rispetto alle finalità istituzionali dell'ente pubblico, laddove queste prevedano, appunto, forme obbligatorie ex lege di archiviazione dei dati in funzione del perseguimento di interessi pubblici prevalenti, quali - ad esempio - l'impiego giudiziario del campione biologico, ovvero qualora la conservazione venga effettuata per fini scientifici o statistici. Ne segue che un automatico obbligo di distruzione del dato non è configurabile in capo al titolare del trattamento laddove il termine della conservazione sia correlato alle predette finalità istituzionali, come nel caso in esame in cui il cd. "materiale di archivio campionato" (blocchetti in paraffina e vetrini) venga a costituire oggetto di specifico obbligo, imposto alle Aziende ospedaliere, relativo alla conservazione dei referti e delle cartelle cliniche (cfr. Linee guida sulla "tracciabilità, raccolta, trasporto, conservazione e archiviazione di cellule e tessuti per indagini diagnostiche di anatomia patologica" elaborate dal Ministero della Salute Consiglio Superiore di Sanità - maggio 2015) e sia previsto uno specifico obbligo di legge alla conservazione per dieci anni dei campioni biologici riferibili a pazienti deceduti (cfr. L. 30 marzo 2001, n. 130, art. 3, comma 1, lett. h). La consegna dei vetrini da parte delle aziende ospedaliere deve quindi qualificarsi come adempimento alle prescrizioni contenute nel provvedimento giudiziario che ha conferito l'incarico al Ctu di acquisire anche "informazioni" presso terzi ai sensi dell'art. 194 c.p.c.
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mercoledì 8 luglio 2020
Cassazione Civile Sentenza n. 8459/2020 - CAMPIONI BIOLOGICI – PRIVACY – ACCERTAMENTO PATERNITA’
venerdì 28 febbraio 2020
REVOCA DEL TESTAMENTO PER SOPRAVVENIENZA DI FIGLI.
L'art. 687 c.c. stabilisce che
le disposizioni sia a titolo universale sia a titolo particolare, fatte da chi
al tempo del testamento non aveva oppure ignorava di avere figli o discendenti
sono revocate di diritto per l'esistenza o la sopravvenienza di un figlio o
discendente del testatore, benché postumo anche adottivo, ovvero per il riconoscimento
di un figlio naturale.
La fattispecie legale della revocazione di diritto riguarda sia il caso in cui il testatore non aveva discendenza al
tempo del testamento, sia l'ipotesi in cui la discendenza c'era già, ma egli ne
ignorava l'esistenza.
La disposizione in esame, secondo l'orientamento prevalente
non si applica per il caso del testamento redatto dal de cuius che, al
momento della sua predisposizione, già avesse figli, dei quali fosse nota
l'esistenza, e sia sopraggiunto un altro figlio.
Se il testatore aveva già avuto dei figli dei quali gli era
nota l'esistenza al tempo della redazione del testamento e ne siano,
successivamente, sopraggiunti degli altri, la revoca non è operante.
Ne deriva che è preclusa l'applicazione in via analogica
alla fattispecie di figlio sopraggiunto dopo la redazione del testamento
effettuata in presenza di altri figli.
L'eccezionalità dell'art. 687 c.c. si giustifica per due
ragioni: da un lato, esso dà luogo a una fattispecie di inefficacia
sopravvenuta di un negozio; dall'altro, esso pone una deroga al principio della
prevalenza della successione testamentaria su quella legittima, valorizzato
dall'art. 457 c.c., secondo cui non si fa luogo alla successione legittima se
non quando manca in tutto o in parte quella testamentaria.
La dichiarazione giudiziale di paternità anche se
intervenuta dopo la morte del de cuius comporta la revocazione del testamento
per sopravvenienza di figli.In tema di revocazione del testamento
per sopravvenienza di figli, il disposto dell'art. 687 c.c., comma 1, ha un
fondamento oggettivo, riconducibile alla modificazione della situazione
familiare rispetto a quella esistente al momento in cui il de cuius ha disposto
dei suoi beni, sicché, dovendo ritenersi che tale modificazione sussista non
solo quando il testatore riconosca un figlio ma anche quando venga esperita nei
suoi confronti vittoriosamente l'azione di accertamento della filiazione, il
testamento è revocato anche nel caso in cui si verifichi il secondo di tali
eventi in virtù del combinato disposto dell'art. 277 c.c., comma 1, e art. 687
c.c., senza che abbia alcun rilievo che la dichiarazione giudiziale di
paternità o la proposizione della relativa azione intervengano dopo la morte
del de cuius, né che quest'ultimo, quando era in vita, non abbia voluto
riconoscere il figlio, pur essendo a conoscenza della sua esistenza.
La pronunzia in esame
conferma il recente orientamento assunto dalla giurisprudenza di legittimità,
secondo cui la dichiarazione giudiziale di paternità (nel caso di
specie, intervenuta, fra l'altro, dopo la morte del de
cuius) comporta la revocazione del testamento per sopravvenienza di
figli, nonostante l'art. 687
c.c. faccia riferimento alla sola e differente fattispecie di
riconoscimento di figlio naturale.
La ratio della revocazione, ex art. 687 c.c., delle disposizioni, a
titolo universale o particolare, va individuata nell'esigenza di tutelare i
figli del disponente.
L'art. 687
c.c. realizza
a favore dei legittimari un risultato ulteriore rispetto a quello che questi
potrebbero conseguire con la semplice azione di riduzione.
Infatti, la disciplina della riserva non contempla
l'inefficacia totale delle disposizioni del de cuius,
ma la sola riduzione di quelle lesive per i legittimari.
Per consulenza legale scrivere al seguente indirizzo mail: avv.chiaraconsani@gmail.com
lunedì 20 maggio 2019
IL DIRITTO DI ABITAZIONE IN CASO DI MORTE CONIUGE SEPARATO NON PIU’ CONVIVENTE
La Corte di Cassazione, con la sentenza 22 ottobre
2014, n. 22456, precisa che il diritto di abitazione sulla casa familiare, non
può essere attribuito al coniuge superstite quando lo stesso sia legalmente
separato e non più convivente nella casa oggetto della disposizione
successoria.
In caso di separazione personale dei coniugi e di
cessazione della convivenza, l’impossibilità di individuare una casa adibita a
residenza familiare al momento dell’apertura della successione fa venire meno
il presupposto oggettivo richiesto ai fini dell’attribuzione del diritto reale
di abitazione al coniuge superstite.
L'art 540 c.c. riserva al coniuge del defunto il
diritto di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso dei
mobili che la arredano.
L’art 548 c.c. attribuisce genericamente al coniuge
separato cui non è stata addebitata la separazione, gli stessi diritti
successori del coniuge non separato, si era ritenuta l’estensione automatica
del diritto di abitazione.
Solo di recente la giurisprudenza di legittimità ha
chiarito la questione dopo un decennio di contrastanti interpretazioni.
La sentenza n. 13.407 del 12/06/2014 ha ritenuto che
il diritto reale di abitazione, riservato per legge al coniuge superstite ha ad
aggetto l'immobile che in concreto era adibito a residenza familiare in cui
entrambi i coniugi vivevano insieme stabilmente organizzandovi la vita
domestica del gruppo familiare.
La Ratio della norma di cui all’art 540 c.c. non è
tanto la tutela dell' ”interesse economico” del coniuge superstite di disporre
di un alloggio, quanto dell'”interesse morale” legato alla conservazione dei
rapporti affettivi e consuetudinari con la casa familiare.
Ad esempio: la conservazione della memoria del coniuge
scomparso, e lo stato sociale goduto durante il matrimonio.
In caso di separazione personale dei coniugi e di
cessazione della convivenza, l'impossibilità di individuare una casa adibita a
residenza familiare fa venire meno il presupposto oggettivo richiesto ai fini
dell'attribuzione del diritto di abitazione.
In maniera del tutto speculare la legge Cirinnà (L. n.
76/2016) ha previsto una specie di “diritto di abitazione sulla casa
familiare”, anche se limitato nel tempo, al partner del defunto unito
civilmente ricalcando, quindi, la disciplina dell’art. 540 Cod. Civ..
PER CHIARIMENTI E CONSULENZE SCRIVERE ALLA SEGUENTE
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ASSEGNAZIONE DELLA CASA FAMILIARE IN SEDE DI SEPARAZIONE E DIVORZIO ED OPPONIBILITA’ AI TERZI
Sentenza Cassazione civile, sez. II, 24/01/2018, n.
1744 che conferma l’ormai consolidato orientamento delle Sezioni Unite espresso
con la Sentenza n. 11096 del 2002.
La Suprema Corte ha precisato che, il provvedimento di
assegnazione della casa coniugale individua una posizione di «detenzione
qualificata» a favore del coniuge assegnatario, essendo diretto a tutelare
l’interesse della prole a permanere nell’abituale ambiente domestico. Tale
diritto è opponibile al terzo che abbia acquistato successivamente una
posizione giuridica incompatibile con quella del coniuge assegnatario
(Cassazione, Sezioni Unite, 11096/2002); inoltre, il provvedimento giudiziale
di assegnazione della casa familiare, in quanto avente data certa, è opponibile
al terzo acquirente in data successiva, per nove anni dalla data di
assegnazione, sia che il provvedimento giudiziale sia stato o meno trascritto
nei Registri immobiliari.
Al principio di opponibilità al terzo acquirente del
provvedimento di assegnazione consegue che il terzo è tenuto a rispettare il
godimento del coniuge, nei limiti di durata innanzi precisati, quale vincolo di
destinazione collegato all'interesse dei figli, e quindi con esclusione di
qualsiasi obbligo di pagamento da parte del beneficiario per tale godimento.
Per ogni chiarimento non esitare a contattarmi via una
e-mail: avv.chiaraconsani@gmail.com
sabato 4 novembre 2017
LE DONAZIONI DI STRUMENTI FINANZIARI DAL CONTO DI DEPOSITO TITOLI A MEZZO BANCA
Corte di Cassazione,
Sezioni Unite, sentenza n. 18725 del 27 luglio 2017
Le Sezioni Unite hanno sciolto i
dubbi sulla questione se un trasferimento di valori mobiliari mediante ordine
impartito alla banca possa considerarsi donazione diretta o meno.
Le Sezioni Unite hanno così
enunciato il seguente principio di diritto:
“ Il trasferimento per spirito
di liberalità di strumenti finanziari dal conto di deposito titoli del
beneficiario realizzato a mezzo banca, attraverso l’esecuzione di un ordine di
bancogiro impartito dal disponente, non rientra tra le donazioni indirette, ma
configura una donazione tipica ad esecuzione indiretta. Ne deriva che la
stabilità dell’attribuzione patrimoniale presuppone la stipulazione dell’atto
pubblico di donazione tra beneficiante e beneficiario, salvo che ricorra l’ipotesi
della donazione di modico valore.”
La vicenda riguarda un
trasferimento di valori mobiliari di cospicuo valore, depositati su conto
bancario, eseguito a favore di un terzo – la convivente – in virtù di un ordine
in tal senso impartito alla banca dal titolare del conto, deceduto pochi giorni
dopo l’operazione. Apertasi la successione, la figlia del de cuius chiedeva la
restituzione degli strumenti finanziari appartenuti al padre tenuti in un
apposito conto di deposito titoli in amministrazione presso la banca, deducendo
la nullità del negozio attributivo in quanto privo della forma solenne
richiesta per la validità della donazione.
La questione giuridica di fondo affrontata
dalle Sezioni Unite è la seguente:
un’operazione attributiva di
strumenti finanziari, compiuta attraverso una banca chiamata a dare esecuzione
all’ordine di trasferimento dei titoli impartito dal titolare con operazioni
contabili di addebitamento e di accreditamento, costituisce una donazione
tipica ex 769 c.c. oppure una donazione indiretta ai sensi dell’art. 809 c.c..?
Le Sezioni Unite in sintesi
ritengono che l’operazione bancaria in adempimento dell’ordine impartito dal
soggetto svolgerebbe una funzione esecutiva di un atto negoziale ad esso
esterno, intercorrente tra il beneficiante e il beneficiario, il quale soltanto
è in grado di giustificare gli effetti del trasferimento di valori da un
patrimonio all’altro. Osserva la Corte, in altre parole, “si è di fronte, cioè, non ad una donazione attuata indirettamente in
ragione della realizzazione indiretta della causa donandi, ma ad una donazione
tipica ad esecuzione indiretta”, per cui il trasferimento trova la propria
giustificazione nel rapporto tra l’ordinante – disponente e il beneficiario,
dal quale dovrà desumersi se l’accreditamento (atto neutro) sia sorretto da una
iusta causa: “di talché, ove questa si atteggi a causa donandi, occorre, ad
evitare la ripetibilità dell’attribuzione patrimoniale da parte del donante,
l’atto pubblico di donazione tra il beneficiante e il beneficiario, a meno che
si tratti di donazione di modico valore”.
La riconduzione della fattispecie
nella donazione diretta ha ricadute applicative assai rilevanti, ove si
consideri che l’onere di forma è espressamente previsto dalla legge solamente
per le donazioni dirette con la conseguente nullità nel caso di mancanza della
forma solenne (atto pubblico e presenza dei testimoni).
venerdì 30 novembre 2012
LEGGE STORICA I FIGLI NATURALI COME QUELLI LEGITTIMI
Il Parlamento ha approvato
definitivamente un progetto di legge volto ad eliminare dall'ordinamento le
residue distinzioni tra figli legittimi e figli naturali, affermando il
principio dell'unicità dello stato giuridico dei figli.
Il 27 novembre 2012 l'Assemblea
della Camera ha definitivamente approvato l'AC. 2519-B.
Il provvedimento era già stato
approvato dalla Camera in prima lettura nel giugno 2011, per essere poi
modificato dal Senato il 16 maggio 2012. La Camera in seconda lettura non ha
apportato ulteriori modifiche al testo.
L'AC. 2519-B, approvato dalla
Camera il 27 novembre 2012, consta di sei articoli concernenti:
- nuove disposizioni, sostanziali
e processuali, in materia di filiazione naturale e relativo riconoscimento,
ispirate al principio "tutti i figli hanno lo stesso stato
giuridico";
- delega al Governo per la
modifica delle disposizioni vigenti per eliminare ogni discriminazione tra
figli legittimi, naturali e adottivi;
- ridefinizione delle competenze
fra tribunali ordinari e tribunali dei minorenni in materia di procedimenti di
affidamento e mantenimento dei figli; sono inoltre dettate disposizioni a
garanzia del diritto dei figli agli alimenti e al mantenimento;
- disposizioni transitorie e in
materia di stato civile (artt. 4 e 5);
- la clausola di invarianza
finanziaria.
I principali profili sui quali
era intervenuto con modifiche il Senato sono i seguenti:
- art. 251 c.c., con una novella
volta ad ampliare le ipotesi di riconoscimento dei figli incestuosi;
- cognome del figlio naturale,
con la soppressione della disposizione introdotta dalla Camera che,
intervenendo sull'art. 262 c.c., prevedeva che il figlio potesse assumere il
cognome del padre aggiungendolo (e non più sostituendolo) a quello della madre;
- art. 276 c.c., in materia di
legittimazione passiva alla domanda di dichiarazione giudiziale di paternità
naturale;
- competenza del tribunale per i minorenni
attraverso l'integrale riformulazione dell'articolo 3 del disegno di legge. Il
Senato ha infatti attribuito al tribunale ordinario - al posto del tribunale
per i minorenni - un'ampia serie di controversie (dal riconoscimento dei figli
naturali all'affidamento del figlio naturale ed al suo inserimento nella
famiglia legittima; assunzione del cognome del minore; autorizzazione
all’impugnazione del riconoscimento del figlio naturale; decisioni
nell’interesse del figlio in caso di contrasto tra i genitori; esercizio della
potestà dei genitori; dichiarazione giudiziale di paternità o maternità).
La norma interviene a sanare le
differenze ancora esistenti nello status dei figli nati da coppie non sposate.
Prima fra tutte, il pieno riconoscimento all’interno della famiglia.
Fino ad ora i figli naturali essi
hanno avuto come parenti solo i genitori con profonde ricadute sulla
possibilità della famiglia di tutelarli, in caso di scomparsa o impossibilità
dei genitori, sul diritto successorio e sulle procedure in caso di separazione,
affidate al Tribunale dei minorenni e non a quello ordinario.
La norma ha notevoli effetti sul
piano ereditario.
a)
Il diritto di commutazione:
La principale discriminazione dei
figli naturali rispetto ai figli legittimi è rappresentato dal diritto di
commutazione di cui all’articolo 537, comma 2 del codice civile.
Tale norma, prevede, infatti, che
“i figli legittimi possono soddisfare in
denaro o in beni immobili ereditari la porzione spettante ai figli naturali che
non vi si oppongano. Nel caso di opposizione decide il giudice valutate le
circostanze personali e patrimoniali”.
Con la riforma in esame
venendo meno la distinzione tra i figli naturali e figli legittimi dovrebbe
venir meno anche il diritto di commutazione che ad essi si riferiva. Insomma da
ora in poi i figli al di fuori del matrimonio non potranno più essere liquidati
ma entreranno a pieno titolo e pari merito con i legittimi nella comunione
ereditaria.
B)
Successione tra fratelli
La novità maggiore riguarda la successione
tra fratelli.
Prima della riforma posto che il
riconoscimento del figlio naturale faceva sorgere rapporti solo tra il genitore e figlio
riconosciuto e non tra quest’ultimo e i suoi fratelli non vi era alcun rapporto
di parentela tra fratelli naturali e fratelli legittimi.
La Corte costituzionale, con la
sentenza del 4 luglio 1979 e quella successiva del 12 aprile 1990 n. 184, aveva
solo parzialmente posto rimedio a questa situazione stabilendo che alla morte
del fratello naturale, l’altro fratello avrebbe ereditato qualora il defunto
non avesse coniuge, figli ed altri parenti entro il sesto grado. Pertanto
soltanto in assenza di parenti entro il sesto grado sarebbe subentrato il
fratello naturale con priorità sullo Stato.
Oggi con l’equiparazione della filiazione
naturale a quella legittima, se muore una persona priva di figli, muore, i suoi
fratelli erediteranno sia che siano fratelli legittimi o fratelli naturali
senza più alcuna discriminazione.
venerdì 25 marzo 2011
FIGLI LEGITTIMI E FIGLI NATURALI FINALMENTE, forse, NON PIÙ DIVERSI:
Il figlio naturale è il figlio generato da un uomo e una donna non legati da un matrimonio valido agli effetti civili.
Evoluzione storico giuridica :
1942
Il diritto di famiglia come codificato nel 1942 concepiva una famiglia fondata sulla discriminazione dei figli nati fuori dal matrimonio, che ricevevano un trattamento giuridico deteriore rispetto ai figli legittimi. Le sue norme dettavano una situazione di vera inferiorità giuridica dei figli naturali, cioè nati fuori del matrimonio, sacrificandone i diritti a favore di familiari e persino a favore di parenti lontani.
1948
La Costituzione dedica alla famiglia tre articoli.
- L'art. 29 stabilisce che "La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio. Il matrimonio è ordinato sulla eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell'unità familiare".
- L'art. 30 stabilisce che "È dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti. La legge assicura ai figli nati fuori dal matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima. La legge detta le norme e i limiti per la ricerca della paternità".
- L'art. 31 stabilisce che "La Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l'adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose. Protegge la maternità, l'infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo".
Da queste tre disposizioni costituzionali si possono desumere alcuni principi:
il principio di autonomia della famiglia,
il principio di uguaglianza fra i coniugi,
il principio di tutela dei figli nati fuori dal matrimonio,
il principio dell'autonomia educativa,
il principio del sostegno pubblico ai compiti educativi della famiglia.
1975
Il primo libro del codice civile del 1942 venne riformato dalla Legge 19 maggio 1975, n. 151 "Riforma del diritto di famiglia", che apportò modifiche tese ad uniformare le norme ai principi costituzionali in tal senso ha eliminato ogni discriminazione di ordine patrimoniale tra figli naturali e legittimi.
Sono state mantenute solo alcune limitazioni per evitare che la tutela di alcuni interessi dei figli naturali possa creare gravi conflitti all'interno della famiglia legittima:
1) la famiglia legittima ha il diritto di rifiutare di convivere con il figlio naturale di uno dei coniugi.
2) la costituzione legale del rapporto giuridico di filiazione non si costituisce automaticamente, ma solo per effetto di un atto volontario del genitore riconoscimento di figlio naturale o di accertamento a opera del giudice. Ciò non significa che il solo fatto della procreazione non abbia rilevanza giacché essa è comunque fonte di responsabilità dei genitori (per quanto attiene il mantenimento per esempio).
3) i figli naturali non hanno rapporti 'giuridici' con i parenti del loro genitore a eccezione degli ascendenti, cioè nonni e bisnonni. Ciò significa, ad esempio, che non acquisiscono legalmente 'zii' o 'cugini'.
4) in materia di procedura giudiziaria per la regolamentazione dei rapporti personali e patrimoniali in caso di cessazione della convivenza dei genitori, la competenza a decidere dell'affidamento e del mantenimento dei figli naturali minorenni o maggiorenni non autosufficienti sarà del Tribunale per i Minorenni anziché del Tribunale Ordinario, come è invece per i figli legittimi in caso di separazione dei genitori.
5) Art 537 C.C. in caso di concorso all'eredità dei genitori con figli legittimi della coppia (quindi con i fratelli nati in costanza di matrimonio), i figli naturali possono veder liquidata in denaro la quota di eredità loro spettante anziché acquisire i beni che sarebbero loro riservati.
Ciò non significa che abbia diritto ad una quota minore di eredità ma solo che i fratelli legittimi potranno esercitare l'opzione di riconoscere ai fratelli naturali l'equivalente in denaro della loro parte anziché l'assegnazione dei beni.
Il legislatore della riforma del diritto di famiglia, modificando radicalmente quanto in precedenza previsto dall’art. 541 cod. civ. (abrogato dall’art. 177 della stessa legge n. 151 del 1975) – ha equiparato i diritti successori dei figli legittimi e naturali, contestualmente rimodulando il menzionato diritto di commutazione (che riguarda la fase di divisione dell’asse ereditario), trasformato da insindacabile diritto meramente potestativo attribuito ai figli legittimi a diritto ad esercizio puntualmente controllato, in quanto soggetto alla duplice condizione della mancata opposizione del figlio naturale e della decisione del giudice, «valutate le circostanze personali e patrimoniali».
Occorre rilevare che la Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità di tale norma anche come riformata nel 1975, con la Sentenza 18 dicembre 2009, n. 335, ha affermato che la norma sopra richiamata si colloca nella prospettiva del progressivo adeguamento della normativa allo spirito evolutivo di cui al precetto costituzionale del terzo comma dell’art. 30, che permea la riforma del diritto di famiglia e che è soggetta anche al limite, stabilito dalla medesima disposizione costituzionale, della compatibilità con i diritti dei membri della famiglia legittima (sentenza n. 168 del 1984).
L’espresso riferimento della Costituzione al criterio di “compatibilità” assume la funzione di autentica clausola generale, aperta al divenire della società e del costume.
In tal senso la Cassazione ha ritenuto che la scelta del legislatore di conservare in capo ai figli legittimi la possibilità di richiedere la commutazione, condizionata dalla previsione della facoltà di opposizione da parte del figlio naturale e dalla valutazione delle specifiche circostanze posta a base della decisione del giudice, non contraddice la menzionata aspirazione alla tendenziale parificazione della posizione dei figli naturali, giacché non irragionevolmente si pone ancor oggi (quale opzione costituzionalmente non obbligata né vietata) come termine di bilanciamento (compatibilità) dei diritti del figlio naturale in rapporto con i figli membri della famiglia legittima.
2010/2011
FORSE ad oggi dopo ben 69 anni di evoluzione storico sociale la nostra società ed il suo costume sono pronti ad una concreta equiparazione tra figli legittimi e figli naturali.
Ad ottobre 2010 il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge delega volto a modificare la disciplina in materia di filiazione con il fine di assicurare una sostanziale equiparazione dei diritti dei figli legittimi con quelli dei figli naturali.
Il disegno di legge si compone di quattro articoli.
1) Il primo introduce modifiche al codice civile: si sposta l’attenzione dal concetto di "potestà dei genitori" al più generale concetto delle relazioni che intercorrono tra genitori e figli. Accanto ai doveri dei genitori - mantenimento, educazione e istruzione (già previsti dalla Costituzione) - viene introdotto il diritto del figlio ad essere assistito moralmente, oltre che a crescere con la propria famiglia, ad avere rapporti con i parenti e ad essere ascoltato in tutte le questioni e le procedure che lo riguardano.
Si introduce il principio generale della unicità dello stato giuridico di figlio, per effetto del quale le disposizioni in tema di filiazione si applicano a tutti i figli, senza distinzioni, salvi i casi in cui vi siano ragioni per distinguere i figli nati nel matrimonio da quelli nati fuori del matrimonio (le definizioni di "figli nati nel matrimonio" e "figli nati fuori dal matrimonio", sostituiscono quelle precedenti di "figli legittimi" e "figli naturali", adeguando, in tal modo, il codice civile, alla formula lessicale adottata dall’articolo 30 della Costituzione).
2) Il secondo contiene la delega al Governo ad intervenire in materia della filiazione e di dichiarazione di stato di abbandono per eliminare ogni residua differenziazione tra i figli anche adottivi.
Alcuni tra i più significativi principi e criteri di delega sono la modifica della disciplina relativa al riconoscimento dei figli nati fuori dal matrimonio: viene affermato il principio che il figlio riconosciuto è parente dei parenti del suo genitore. Si prevede, ai fini del riconoscimento, un abbassamento da 16 a 14 anni, dell’età richiesta per esprimere il consenso. Si afferma l’esigenza di un adeguamento della disciplina relativa all’inserimento del figlio nella famiglia del genitore che lo ha riconosciuto con quella dettata in materia di affidamento condiviso, prevedendosi comunque il consenso dell’altro coniuge convivente e l’ascolto degli altri figli conviventi.
Viene adeguata la disciplina sulle successioni e sulle donazioni con l’obiettivo di eliminare ogni discriminazione tra figli.
Per maggiori approfondimenti si veda:
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